Salò o Le 120 giornate di Sodoma
Il film di Pasolini, intendo.
Visto il 2 novembre al cinema Astra, in occasione della
bella rassegna che è stata il cuore del 18° Parma Film Festival.
Versione originale restaurata.
Cioè mai così bella esteticamente, colori nitidi e luce
perfetta, che permettono di apprezzare il capolavoro estetico costruito da
Pasolini.
Lo spazio disegnato dentro alla villa, nel salone dei
racconti e delle orge, un quadro neoclassico: la scala bianca, dalla quale
scendono le narratrici, il tavolo di legno massiccio di fronte alla scala,
l'ombra del tavolo simmetrica e trapezoidale sul pavimento.
Uno spazio freddo, teatro dello strazio dei corpi e delle
anime dei giovani rapiti e schiavizzati.
Il film è tributario di De Sade e di Dante nella stessa misura;
la discesa all'inferno delle giovani vittime è scandita da un antinferno, in
cui i giovani vengono braccati nelle campagne padane e sottratti alle loro
famiglie di "sovversivi"; segue il girone delle manie, in cui i corpi
vengono usati come strumento di soddisfazione delle perversioni sadiche dei
loro carnefici (un Duca, un Presidente, un'Eccellenza, un Monsignore: quattro
poteri a formare un potere assoluto e totalmente anarchico: il Potere,
incarnato nel fascismo storico della Repubblica di Salò); la discesa
all'inferno prosegue con il girone della merda, in cui i giovani corpi, ridotti
a merce nel girone precedente, vengono nutriti con i loro stessi escrementi
(anticipazione mirabile del Junk fast food dei nostri tempi); conclude il
supplizio il girone del sangue, in cui i corpi di chi abbia osato, anche in
minima parte, contravvenire alle regole, all'obbligo di essere felici nel
soddisfare come merce i desideri altrui, viene torturato in modo brutale:
bruciature dei genitali, marchiature a fuoco, scotennature e mutilazioni
varie... Un delirio di violenza brutale oscena
in senso letterale, fuori dalla scena, per certi versi inguardabile. Un pugno
allo stomaco, diverse volte ho dovuto deglutire per non star male.
Un film testamento, un capolavoro assoluto in cui la
violenza si capovolge, grazie al disgusto, in lezione morale, facendo divenire
il film un poema nero di grande
potenza etica.
Due sequenze mi sono rimaste negli occhi più di altre: una, l'uccisione
del collaborazionista che ha trasgredito alle regole facendo l'amore (desiderio
vero e puro, non dettato dal regolamento del potere) con la servetta nera;
colto sul fatto dai quattro signori del potere, li saluta col pugno alzato, da comunista, rendendoli per un attimo sbigottiti e sorpresi. Poi la violenza con cui i
potenti scaricano le pistole su di lui è figlia della rabbia del potere deriso.
Un gesto di libertà assoluta contro il potere assoluto, quando non c'è più
niente da perdere.
La seconda sequenza è in realtà una serie di sequenze sul
matrimonio: il matrimonio imposto dal Potere a un ragazzo e una ragazza,
costretti poi a denudarsi e a "consumare" le nozze davanti ai
signori, sul pavimento; il matrimonio grottesco di tre dei signori (il Duca, il
Presidente, l'Eccellenza) travestiti da donna con tre dei ragazzi, nozze
officiate dal Monsignore, naturalmente. Il matrimonio come contratto imposto e
convenzione consunta, per ubbidire al potere e alle sue convenzioni; il
matrimonio come struttura sociale parte integrante del sistema consumistico,
svuotato da qualsiasi segno e simbolo d'amore.
Un film duro, senza speranza, dal finale apparentemente leggero: due giovani collaborazionisti
cercano sulla radio le note del pezzo che accompagna tutta la vicenda in vari
tratti di stacco dalla violenza; si tratta del brano di Morricone "Son
tanto triste", un valzer leggero e melodico, come una carezza di sollievo
nella violenza brutale del film.
Ebbene, quella conclusiva è una scena chiave per
l'interpretazione del film: mentre i due ragazzi ballano fra loro uno chiede
all'altro: "Come si chiama la tua fidanzata?" Margherita, risponde
l'altro.
Conoscendo la poetica di Pasolini, non può essere un nome attribuito
casualmente. E allora come non pensare alla Margherita fidanzata di Faust, un
tale che aveva venduto l'anima al diavolo, come ha fatto il ragazzo
collaborazionista con la ferocia del potere assoluto?
Condanna etica doppia, quindi da parte del regista.
Ma Margherita è anche colei che può riscattare la dignità
umana di Faust. E allora il messaggio non è alternativo, ma duplice: da un lato
la condanna di chi vende la propria anima al diavolo e che non può ricevere che
il muto e rassegnato disprezzo dell'Autore; dall'altro, il poeta sembra dirci:
solo nell'amore può esistere un riscatto.
Riscatto dalla violenza del potere, ma anche dalla
pusillanimità di coloro che accettano la mercificazione degli altri, pur di
slavare la pelle, senza capire che questo significa anche accettare la propria
mercificazione. In un mondo totalmente alienato dal consumismo, che ha ridotto
i corpi e le anime a merce.
Quando entri in un supermercato, se ti va bene puoi giusto
scegliere la marca, è questa la libertà che ci è rimasta, ci dice Pasolini in
quest'ultimo elevatissimo e potentissimo urlo di dolore.
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