La schiuma della memoria

Qui si parla innanzitutto di un romanzo, uscito nel novembre del 2010 presso le edizioni Montag di Tolentino.
Il titolo è La schiuma della memoria e l'ho scritto io.
Poi si parla e si scrive di altre cose, di fotografie e di film, di libri letti e di teatro, di teatroterapia e di paesaggio. E di altro ancora. L'intenzione è comunque quella di raccordare la memoria con l'attualità per ritrovare il senso perduto degli eventi e per non dimenticare personaggi che con le loro vite hanno scritto pagine di storia non solo privata, ma anche collettiva. Molti di essi sono i miei riferimenti culturali e di valore. Il romanzo stesso dialoga con questi contenuti, in modo dinamico, in costante evoluzione, perché la memoria non è cristallizzazione ma è senso e significato. Mi piacerebbe che la lettura del blog desse anche il piacere della scoperta e di un punto di vista sul mondo spostato dalla norma, in qualche modo sorprendente. Buona lettura.

Estratti del romanzo


L'inizio del romanzo.
Prima c'è un'epigrafe:

“Beati gli smemorati, perché non hanno nulla da rimproverarsi”

F. Nietzsche

Ecco.
Questo è il paesaggio: tutto bianco. La strada s'inerpica sull’argine, in campagna, ma c’è la neve sui campi e sulla strada e sta nevicando anche adesso. È tutto bianco, anche il cielo, come in un film bianco proiettato su uno schermo bianco.
Questa è l’automobile: una Panda rossa, col tettuccio apribile, che però è chiuso in questo momento; naturale, considerato che è inverno e sta nevicando. L’auto va via silenziosa lungo la strada che si snoda sull’argine, una macchia rossa in un paesaggio tutto bianco.

Eccomi.
Quello lì dentro, alla guida della Panda, sono io, che ascolto il silenzio della neve e mi abbaglio nel suo candore e sono quasi incantato, impietrito dallo stupore per tutto questo biancore, per questo paesaggio anomalo e insolito, che non sembra più neanche la mia strada, sto pensando mentre guido dentro alla macchiolina rossa dentro il paesaggio bianco.

Eccola.
Un’altra macchiolina sull’argine, qualcosa di marrone con la coda, un topo forse, o un ghiro o uno scoiattolo, chissà, sfuggito al letargo in questo anomalo bianco silenzio. La macchiolina diviene un guizzo che all’improvviso attraversa la strada, mentre sto guidando e divento sempre più incantato e rapito, no, avevo detto impietrito, dallo stupore per queste anomalie che accadono tutte in una volta: prima il paesaggio tutto bianco e silenzioso e adesso anche questa macchia marrone con la coda che mi taglia la strada, che non so bene se sia uno scoiattolo o un ghiro, strappato a forza dal suo letargo, o piuttosto un topo, a caccia di cibo, stupito anche lui da questo paesaggio così bianco e silenzioso. Qualunque cosa sia questa macchia marrone che mi sta attraversando la strada improvvisamente, ho una sola certezza: non voglio farla diventare una macchia rossastra con un po’ di pelo spargnaclato sulla strada, non voglio schiacciare un piccolo roditore, meglio frenare, mi dico; e allora freno, così, improvvisamente, appena il guizzo marrone appare sulla mia strada tutta bianca, dentro un paesaggio tutto bianco e silenzioso. Freno, senza far rumore, senza guastare questo silenzio così perfetto, ma l’esserino marrone con la coda si spaventa lo stesso e con un balzo salta giù dall’argine, affonda e scompare nella neve, riemerge e attraversa la bianca distesa ondulando, si arrampica su una pianta: era un ghiro, dunque, oppure uno scoiattolo. Non era un topo, comunque, si vedeva dalla coda che non era un topo, d'altra parte i topi non si arrampicano sugli alberi, almeno io non l’ho mai visto un topo arrampicarsi così in alto.
Contemporaneamente la Panda comincia a pattinare sull’argine, scivola via, sempre in silenzio, lasciando dietro di sé una doppia striscia scura che sporca il candore del paesaggio tutto bianco; anche l'auto salta giù dall’argine con un balzo, si rovescia, rotola un po’, si pianta nella neve, con le ruote all’insù che continuano a girare.
Io intanto non vedo più niente, il bianco diventa nero, non sento più niente, nel silenzio del paesaggio tutto bianco intorno a me, sono rovesciato e non distinguo più la terra dal cielo, comunque neanche prima di rotolare ci riuscivo, bianchi entrambi come sono oggi, uguali, omogenei, come in un mondo anomalo immerso nel latte, come in un mondo sottosopra. Mi fa male la testa e ho un gran sonno...

...

... Poi il primo rumore che sento è un leggero ticchettio, come quando piove sui vetri, poi il ticchettio aumenta d’intensità, come quando grandina e i chicchi rimbalzano e vanno a colpire i vetri. Poi apro gli occhi e la prima cosa che vedo è una faccia rossa in mezzo al bianco del paesaggio, con un berretto verde di lana in testa, che sembra Ligabue (il pittore, mica il cantante), ma con due mani molto più grosse di quelle di Ligabue, almeno di come immagino io le mani di Ligabue, appurato che io non lo conosco il pittore Ligabue, che è anche morto da più di quarant'anni, figuriamoci; allora per un attimo penso di essere morto anch’io, lì in quel rotolamento giù dall’argine in mezzo alla neve, e penso che Ligabue sia venuto a prendermi, come un angelo che ha visto, dall’alto di questo cielo color latte, un cadavere mestamente assorto nel campo coperto di neve. Due fantasmi, io e Ligabue, praticamente.
Poi esco a stento dalla Panda capovolta e scopro che invece la faccia rossa è di un contadino che si chiama Otello, come un’opera di Verdi, mi dice lui, che è gentile, ha visto tutto da casa sua ed è venuto a prendermi col trattore, per tirar su la macchina dal campo e rimetterla nella strada sull’argine, così posso tornare a casa, col mio contrabbasso.
Contrabbasso, ma quale contrabbasso, scusi?
Ma sì, quell’affare che c’è lì dietro, non c’è mica un contrabbasso, dentro a quella custodia così grossa?, mi fa il contadino Otello, che gentilmente è venuto via da casa sua col trattore per provare a tirare su la macchina dal campo e rimetterla nella strada sull’argine.

Ecco, quello con una faccia un po’ così sono io, che non mi ricordo più niente, come mi chiamo, per esempio, e che cosa ci faccia un contrabbasso dentro la Panda rossa, in mezzo a un campo d’inverno, lungo la strada sull’argine, con tanta neve e tanto bianco che mi viene voglia di urlare. Ecco, adesso sto urlando dentro questo mondo di neve e di latte.
Ma cosa urli, mi dice allora il contadino Otello, Te devi avere i nervi un po’ scossi, mi sembri Ligabue, da tanto sei sconvolto; o, Ligabue il pittore, eh, mica il cantante moderno. Comunque son tutti due di queste parti, mi dice Otello, con una certa fierezza. Se vieni a casa mia a berti un nocino, che ti farebbe anche bene dopo quella botta lì, ti faccio vedere una cosa.
E mentre io sono lì che affondo nella neve e sto cercando di capire chi sono, da dove vengo, dove sto andando in questo paesaggio tutto bianco, Otello, con le gambe ben piantate nella neve, afferrando e spingendo con le sue manone, gira la Panda dal verso giusto appoggiandola sulle ruote, la aggancia al trattore, la tira su per l’argine in mezzo alla neve, che va su che è un piacere, la Panda, neanche fosse una quattro per quattro, la sistema sulla carreggiata, mi invita a seguirlo. Robusto, Otello, penso fra me e me. Risalgo l’argine, salgo sull’auto, con tutta la neve addosso, e sento Otello che dice fra sé e sé, sul trattore, Ma è proprio suonato questo qui, altro che Ligabue, ma si può salire in macchina con tutta quella neve lì addosso. E si picchia la tempia, col suo indice così grosso e robusto, appena usato, insieme alle altre dita delle sue grandi mani, per girare la Panda dal verso giusto, che le macchine devono essere girate dal verso giusto, mica con le ruote verso il cielo.

Ecco, adesso sto di nuovo guidando nel paesaggio tutto bianco e sta nevicando in una maniera bestiale, poi ho tutta la neve addosso, che ormai sono diventato bianco anch’io, dentro a una macchia rossa con quattro ruote, che si muove dentro a un paesaggio tutto bianco; unici colori dentro a questo bianco: il trattore arancione di Otello, la faccia di Otello tutta rossa con un berretto di lana verde in testa e, appunto, la Panda rossa. La fattoria di Otello è proprio lì davanti a me, a duecento metri dal punto dove sono rotolato giù dall’argine con la Panda, dal punto dove ho perso la memoria. Nel silenzio della neve che mi circonda, mi sembra di sentire uno scoiattolo o un ghiro che ridacchia, dall’alto di una pianta tutta bianca coperta di neve. Io, invece, continuo a chiedermi chi sono, da dove vengo e dove stavo andando prima di perdere la memoria. Dove sto andando adesso lo so, a casa di Otello, che mi ha offerto un nocino e deve farmi vedere una cosa: non ho mica l’Alzheimer, ho solo preso una botta in testa.
Entro tutto coperto di neve in casa di Otello. E questo deficiente coperto di neve chi è, sento che dice una voce di donna. La moglie di Otello, suppongo.

Ecco, adesso sono lì, inebetito e stordito dal paesaggio e dalla perdita della memoria, con un bicchierino di nocino fra le mani, seduto su una seggiola di legno di noce nel salotto della casa di Otello e guardo fuori dalla finestra il paesaggio tutto bianco e silenzioso: unico suono in tutto questo silenzio, uno scoiattolo o un ghiro che ride di gusto.

Ecco, adesso bevo il nocino, che va giù che è un piacere, lo bevo a occhi chiusi, sento che mi scalda dappertutto, intanto la neve che ho addosso si sta sciogliendo nel tepore della casa di Otello, poi riapro gli occhi e mi accorgo che nel salotto di Otello, di fianco alla finestra da cui guardavo il paesaggio tutto bianco, c’è una tigre. Non è il nocino, non è un effetto collaterale da tasso alcolico eccessivo, è che di fianco alla finestra da cui guardavo fuori, c’è un quadro e dentro al quadro c’è una tigre, con un pioppeto sullo sfondo, e c’è una targa di fianco, sopra c’è scritto: paesaggio del Po con tigre.
Bello, sembra un quadro di Ligabue, dico a Otello.
È, non sembra, un quadro di Ligabue, dice Otello. Era quella lì, la cosa che volevo farti vedere, un quadro originale di Ligabue. L’ha regalato il maestro in persona a mio nonno, in cambio di una bicicletta scassata, non era mica famoso ancora, Ligabue, ma lo sapevano tutti da queste parti che un giorno i suoi quadri avrebbero avuto un valore, se ne approfittavano tutti di Ligabue, in particolare gli osti e le donne. Chiaro che mio nonno era un oste, cosa ridi te.
Intanto che Otello mi dice del quadro, mi viene in mente che Ligabue, per esempio, me lo ricordo. Vedrai che prima o poi mi verrà in mente anche il resto, allora, mi dico, come mi chiamo e da dove vengo e dove vado e anche che cosa ci fa il contrabbasso sulla Panda.
Ma quando va via quel rompiballe di là, che m’ha bagnato tutto il soggiorno, sento che dice una voce di donna dalla cucina: la moglie di Otello, suppongo.

Il protagonista, che narra in prima persona, sta camminando verso Parma lungo una strada innevata. E fa uno strano incontro, un po' selvaggio, un po' epico. Un nuovo breve estratto del romanzo.

È una cosa enorme, il mio contrabbasso, dentro la sua maestosa custodia nera un po’ consumata dagli anni, che si vede subito che è un contrabbasso con una storia, il mio. E pesa come un canchero, il mio contrabbasso, ma si possono fare degli strumenti musicali così grossi, dico io, vi sembra una cosa normale? E cammino avvolto in un cappotto scuro con le tasche vuote, tenendo il bavero alzato, con la mano sinistra, in questo crepuscolo invernale, un po’ bianco per la neve e un po’ blu per il cielo, blu cobalto, per l’esattezza.
Il camioncino che mi supera a tutta velocità non teme la neve che c’è in strada, mi dico. Poi lo vedo sbandare, uscire appena dalla strada, sbattere contro un albero sul ciglio del fosso, un altro che sta per perdere la memoria, mi dico. Invece vedo scendere il conducente che smadonna contro la neve e il padreterno, mi sembra in ottima forma e tonico, il conducente, si ricorda tutte le madonne possibili immaginabili, non ha mica perso la memoria, e dà un calcio al camioncino e poi anche all’albero. Poi risale sul furgone e mette in moto. Intanto, dal retro del camioncino, con un saltello, se ne esce tranquillo e beato un maiale, tutto rosa, col pelo tirato a lustro. L’animale chiude lo sportello con una musata. Il camioncino intanto riparte, con lo sportello dietro chiuso, ma senza maiale dentro, l'animale è rimasto per strada a godersi la libertà. Mi avvicino e il maiale mi guarda perplesso, immobile. In sostanza mi sbarra il cammino. Provo a grugnire un po’, con intensità crescente. Il maiale sbuffa un po’ di fiato suino nell’atmosfera circostante, mi guarda languido in un crescendo di malinconia e passione, mi punta deciso al trotto, la sua passione si converte in indignazione, è furioso il porco, è evidente che io non sono un maiale e quindi lo sto prendendo in giro, starà pensando: intanto, per via del cappotto, io non so se voi avete mai visto un maiale col cappotto, se l’avete visto eravate pieni di allucinogeni, come minimo, e poi per via del contrabbasso, che è proprio impossibile vedere un maiale col contrabbasso, se l’avete visto, fossi in voi, mi preoccuperei davvero, quanto meno cambierei spacciatore, vamolà. Pover purscel, nel senso del maiale, pensa che io lo stia prendendo in giro, ma io volevo solo che mi lasciasse passare, che ne ho già avute abbastanza per oggi, ci mancava anche il maiale. Lo evito con abile mossa da torero e proteggo il mio contrabbasso dall’urto contro il pachiderma, puro istinto da contrabbassista, mi dico, devo proprio essere un contrabbassista. Il porco mi manca e mi affianca, mi supera, poi fa inversione di marcia slittando un po’ e disegnando una U nella neve, ritorna alla carica. Ci mancava la corrida col maiale. Vedo un sasso, lo afferro, lo scaglio contro il porco, lo colpisco sulla schiena, neanche una piega, il maiale. Afferro una pietra un po’ più grossa nel campo di fianco alla strada, lo centro a una zampa, che mira, complimenti, ma non serve tutta questa precisione nel lancio, neanche una piega il suino, continua ad avanzare deciso al trotto, minaccioso e inquietante, verso di me. Allora afferro una pietra ancora più grossa, davvero ingombrante; in effetti, non è una pietra, è una zolla di terra ghiacciata, durissima e pesante, la lancio con un tiro a parabola.

Il protagonista è arrivato a Parma ed è all'interno di un'osteria (o in un saloon del Far West?).

A cena, solo salsicce, stasera, così impara, il maiale! Mi siedo, mi sembra un momento bellissimo, una cosa fantastica, riposare le mie gambe e i miei piedi, esagero, immagino un bagno caldo.

Dissolvenza incrociata, un’immagine si sovrappone a un’altra e la spinge via, la sostituisce.
Ecco, adesso non sono più da Lino a Parma nel XXI secolo, ma nel saloon di un villaggio del Far West, nel XIX secolo. C’è un vecchio pianista che suona un vecchio motivo irlandese, c’è il barista che deve servirmi una bistecca di manzo sommersa da una montagna di patate al forno e intanto mi porta una bottiglia di whisky, ci sono le pupe, una bionda e una mora, che si alzano dalla loro sedia, mi ronzano attorno, mi dicono che sono stato un eroe a liberare il paese da Wild Jeff, il bandito che imperversava nel villaggio da qualche tempo al soldo di Mr. Rosinton, arrogante e potente signorotto locale. Intanto arriva al tavolo la bistecca di manzo sommersa da una montagna di patate al forno, mangio avidamente, ho una fame della madonna, bevo whisky on the rock a pasto, chissà che bruciore di stomaco. Le due pupe ridono di fianco a me, mi abbracciano e mi mordono le orecchie. Fai piano, baby, con quei denti lustri, dico alla mora. E la bionda boccoluta mi dice che di sopra mi ha preparato un bagno e che se lo desidero, mi può accompagnare. La seguo, salgo per le scale, carrellata con sineddoche sugli stivali impolverati che salgono le scale insieme ai polacchetti della bella pupa, apro la porta, una tinozza mi aspetta, piena di acqua calda fumante e di schiuma che sa di lavanda. Mi spoglio, entro nella tinozza, poco igienico fare il bagno dopo mangiato, penso, la pupa si spoglia, mi appaiono le sue forme procaci e armoniose, entra nella tinozza e mi abbraccia e mi bacia, poi veloce impugna la mia pistola afferrandola da terra e me la punta addosso. Hai ucciso Jeff e adesso morirai anche tu, mi dice la pupa. Porca miseria, penso io, lo sapevo che non dovevo fare il bagno dopo mangiato, che fa male alla salute, si digerisce male, specialmente con una pallottola di piombo nello stomaco. Poi la pupa esce dalla tinozza e comincia a insultarmi, sempre tenendomi sotto tiro, io allora afferro l’altra pistola e le sparo subito, quando si spara, si spara e basta, non si parla, le dico dopo aver premuto il grilletto, e la guardo cadere, ralenti e ripetizione della sequenza da altra angolatura, schizzo di sangue che sporca il muro, mentre sul pavimento si allarga una macchia rossa, succo di pomodoro a gogò, ma fa un bell’effetto, sembra sangue vero. Mi alzo dalla tinozza, mi asciugo con calma, mi rimetto i miei vestiti sporchi e impolverati, il senso dell'igiene non è il massimo nel Far West, recupero con calma la pistola. In quel momento entra il pianista con un winchester in mano, muori bastardo, mi dice gridando e agitandosi. Mi tuffo in avanti, parte il colpo del fucile, spacca il vetro della finestra, lotta a terra, pugni e calci, parte un altro colpo, non si vede chi ha sparato. Due corpi immobili a terra. Poi mi alzo e allora si capisce che sono stato io a sparare, faccio un gesto semplice e tranquillo, rinfodero la pistola, mi scuoto la polvere di dosso, robetta per me, questa carneficina. Poi mi chino di nuovo a raccogliere l’altra mia pistola, sono girato di spalle alla porta e sento una voce che mi chiama, mi giro, c’è l’altra pupa, quella mora dai capelli lunghi e lisci, ha in mano un derringer: che due maroni, non c’è un attimo di pace nel Far West. Un colpo sibila vicino al mio orecchio, voleva morderlo col piombo, stavolta. Pensi di colpirmi da lì con un derringer, sei proprio deficiente, le dico, e le pianto una pallottola in fronte, tanto per chiudere il discorso. Non era male, la tipa, ma era una vipera, peccato. Sistemo per bene il cinturone, infilo con cura le pistole nelle fondine, mi infilo il panciotto e la giacca di renna, sto per uscire dalla stanza, quando entra una bellissima indiana, coi capelli corvini e uno sguardo profondo e intenso come la notte stellata del Far West. Qui non finisce più, è davvero stressante la vita nel Far West. Ha un asciugamano fra le mani: non nasconderà mica una pistola, mi dico e sto per spararle, così per non perdere dell’altro tempo per niente, quando lei si avvicina con passo felino. Allora la riconosco, è Washita: nell’episodio precedente l’avevo salvata da Wild Jeff, che voleva impiccarla per puro divertimento, odiava gli indiani Wild Jeff, uno sporco colonialista, una carogna imperialista, Wild Jeff, un fascista di merda. Washita si avvicina ancora, mi abbraccia e mi bacia con foga e desiderio, poi mi toglie la giacca di renna, il panciotto, il cinturone, sempre continuando a baciarmi con foga e desiderio, mi toglie la camicia, mi sbottona i pantaloni, mi butta sul letto, mi sfila gli stivali, mi toglie i pantaloni, pensare che mi ero appena rivestito, poi tocca a lei. Si denuda e vedo la sua pelle lucente e scura, l’accarezzo, è liscia e morbida, la mordo e l’annuso, sa di bosco e di cavallo sudato, geme e si contorce su di me, rovescia la testa all’indietro: delle volte è meno stressante, la vita del Far West, ha dei risvolti piacevoli, faccio in tempo a pensare.

Il personaggio senza memoria non è l'unico, come è spiegato nella scheda di presentazione del romanzo. Qui sotto c'è un frammento della storia di Rocco Gelati, detto Argante, un barbone ex partigiano. La storia la racconta lo stesso Rocco a un'infermiera, in ospedale, dove è finito dopo un'aggressione subita in strada.  

Alla fine del viaggio, a metà marzo, il Che rientrò a Cuba, io decisi di tornare in Italia. Ci salutammo con un abbraccio. Tornai a casa dei miei, a Colorno, non si aspettavano di vedermi, avevo scritto solo poche lettere e nulla avevano saputo degli ultimi anni, quelli di Cuba e dell’Africa. Ero partito che ero un ragazzo di ventuno anni, ero tornato che ero un uomo maturo di quaranta, ormai, con esperienze che i miei coetanei non potevano nemmeno immaginarsi. Ero assente da diciotto anni, avevo conosciuto l’America e suonato il jazz, ero stato dentro la rivoluzione cubana, avevo girato l’Africa. Avevo un grande entusiasmo, volevo raccontare a tutti le mie esperienze, volevo cambiare la società italiana, che mi parve subito bigotta e succube, lo spirito rivoluzionario dei primi anni del dopoguerra si era spento. Mi iscrissi al partito comunista, ma ben presto scoprii che i veri rivoluzionari, i veri innovatori sociali erano pochi. Ce n’era uno, Tommasini, che era figlio di povera gente e aveva un sacco di idee. Parlava di liberazione degli uomini e delle donne, era l’unico che mi ricordava il Che e il suo spirito rivoluzionario. D’altra parte non potevo che essere comunista. Comunismo è credere nel cambiamento dello stato delle cose esistente, quindi per me era ed è il reale raggiungimento dell’uguaglianza, senza la quale non ci sono libertà e fratellanza. È un comunismo figlio della rivoluzione francese, più che di quella russa. Passarono due anni e mezzo di riunioni, di idee, di progetti, di spiragli e speranze di un cambiamento possibile che si cominciava a intravedere nella società. Purtroppo, nell’ottobre del 1967 arrivò una notizia orribile e inaspettata e fu come ricevere una coltellata alle spalle: il Che era stato ucciso a freddo, dopo essere caduto in un tranello e fatto prigioniero dal governo boliviano. Era il 9 ottobre, ma il mondo era incredulo, il Che era bello e invincibile, un guerrigliero della giustizia. Il 15 ottobre Fidel Castro diede la conferma ufficiale: Ernesto Guevara era morto. Tutti avevamo sperato che fosse ancora vivo, che fosse una notizia imperialista, diffusa per scoraggiare l’iniziativa politica delle sinistre nel mondo. Ma dopo l’annuncio di Castro che confermava ufficialmente la notizia, tutte le speranze svanirono. Ci furono pianti e scene di disperazione, soprattutto delle donne, che l’amavano incondizionatamente, ci abbracciavamo piangendo e ripromettendoci di proseguire le sue lotte; ci dicevamo, credendoci profondamente, che grazie a noi il pensiero e l’azione del Che sarebbero rimasti vivi: avevano ucciso un rivoluzionario, ma nel mondo eravamo milioni... Seguirono anni di lotta sociale, di scioperi per la difesa dei diritti. Erano con noi gli operai delle fabbriche, i giovani delle scuole e delle università, i professori, molti giornalisti e intellettuali, soprattutto registi del cinema e del teatro. Il Sessantotto arrivò all’improvviso, impetuoso come un tornado, sembrava che dovessimo spazzare via tutto e in tutto il mondo. Poi, così come era arrivato, il tornado politico se ne andò. Le illusioni crollarono poco alla volta, non eravamo come il Che, un guerriero indomabile, ma comunque come lui eravamo fottuti.
Fu nel 1969 che rividi l’Adele per la prima volta. Era uno degli ultimi respiri del sessantotto, uno degli ultimi scioperi, prima che alcuni di noi cominciassero a parlare di lotta armata, di via armata alla rivoluzione, visto che quella democratica era fallita. Io che ero stato un combattente, un giovane partigiano, ero stanco di lottare, la morte del Che mi aveva inferto il primo colpo, rivedere l’Adele fu il secondo. Quando la riconobbi in manifestazione, proprio qui davanti all’ospedale, ventidue anni dopo il saluto alla mia partenza per l’America, la vidi ancora bellissima e pensai di essere stato uno stupido, di avere abbandonato un amore per inseguire un’illusione, un sogno evanescente di libertà. Pensa che il mio contrabbasso, nel frattempo, era finito a Luzzara in cantina, a casa di mio fratello. E dopo il sogno della musica c’era stato quello della rivoluzione, svanito come il precedente. E lei lì davanti, nel fulgore dei suoi quarant’anni, per nulla spenta, per nulla invecchiata, concreta, di carne e sangue. Mi riconobbe anche lei, ci salutammo con tristezza, io avrei dovuto dirle che fra tutte le cose che avevo vissuto lei era stata la più bella e la più importante, la più viva se non altro. Avrei voluto baciarla, abbracciarla forte. Invece non feci nulla, non le dissi nulla, la lasciai sfilare via coi compagni della montagna, mentre tratteneva a stento le lacrime. Rimasi immobile, inchiodato dall’orgoglio.
Poi mi ributtai in un’altra lotta, quella che mi sembrava stessimo vincendo: portare i matti fuori dai manicomi e chiudere quelle prigioni per malati poveri ed emarginati. I malati ricchi finivano nelle cliniche private, magari in Svizzera. Lì dentro finivano i figli dei braccianti della Bassa, dei taglialegna della montagna, quelli tagliati fuori dalle industrie e dagli uffici, dal mondo che contava; qualche ubriacone, qualche orfano, qualche ragazzo sbandato che finiva prima negli istituti, poi, da grande, nel manicomio. Litigavo con mio padre, che aveva lavorato come cuciniere nel manicomio di Colorno e diceva che i malati non avevano altre possibilità, che lì almeno ricevevano dei pasti caldi, tutti i giorni. Lui era fiero del suo lavoro. Avevo cominciato nel sessantotto, a litigare con mio padre, al tempo dell’occupazione del manicomio insieme agli studenti di psichiatria e a Tommasini, quello che voleva liberare tutti, anche i matti. Poi, nel 1973, mio padre morì. Aveva sessantasette anni. E quello fu il terzo colpo, perché mia madre disse che era stata colpa mia, che gli avevo dato troppi dispiaceri, che ero un disgraziato. Ottenuti i primi risultati con i matti, che voleva dire gruppi appartamento, fattorie, inserimento nelle fabbriche, decisi di lasciare tutto: la casa e il partito, che era un po’ la mia seconda famiglia.

Nei racconti di memoria collettiva rientrano anche le storie sul manicomio di Colorno. A raccontare è Giovanni, psichiatra che nel 1968, quando era ancora studente, aveva occupato il manicomio di Colorno, per partecipare alle lotte per la liberazione dei matti. Quello ricordato qui sotto è uno degli episodi curiosi che vengono narrati all'interno del romanzo.

"Visto che queste storie vi piacciono, ce n’ho delle altre, intanto che arriviamo a Ozzano. Un altro che conosco, Michele, faceva l’infermiere, era di Colorno e del manicomio ci viveva, come gran parte del paese. Racconta spesso un episodio curioso che gli è capitato. A un certo punto, i dirigenti della struttura hanno pensato di sostituire, anche su richiesta dei sindacati, la divisa grigia del personale con sopra stampigliato O. P. , che voleva dire Ospedale Psichiatrico, con la stoffa per farsi fare un vestito come si voleva, fuori, dal sarto. La stoffa non era di cattiva qualità, era una bella flanella, lui ebbe l’idea di farsi tagliare un bel vestito alla moda dei Beatles, che spopolavano in quegli anni, eravamo agli inizi degli anni ’60. Un vestito così, però, lo voleva tenere per le grandi occasioni, per le cerimonie o per la balera della sagra. Purtroppo, venne presto il momento di spianare il vestito, al funerale di un collega. In quell’occasione Michele poté constatare che la sua idea, che gli era parsa così bella e originale, era stata la stessa di tutti quanti gli operatori: tutti al funerale vestiti alla moda dei Beatles, neanche si fossero messi d’accordo! Ecco perché il sarto rideva, quando gli ho commissionato il vestito, lui pregustava già lo spettacolo, dice sempre Michele raccontando quell’episodio lì, la divisa O. P. era diventata un vestito grigio alla moda dei Beatles.


Il protagonista si ricava ogni tanto il tempo di una riflessione sul flusso degli eventi che lo stanno un po' travolgendo da quando ha perso la memoria. Qui sotto ne riporto una sul senso del Perdersi e Ritrovarsi.



È un ritorno a casa che sembra un’odissea, il mio, soltanto che in aggiunta al resto io non so neanche dove devo tornare, che Ulisse della modernità inutile e smemorato che sono diventato. Delle volte perdersi può anche far bene, non discuto, ma bisogna poi ritrovarsi.
Mi è già successo, di perdermi, quella volta sul treno per Genova mi ero perso, avevo sbagliato stazione, dovevo scendere a Brignole e mi è scappata, così sono sceso a Principe; adesso mi tocca scarpinare, mi ero detto anche quella volta lì, che però non c’era mica la neve e si stava bene con l’aria di mare, in primavera, a Genova. Allora scendo dal treno, con calma, esco dalla stazione e comincio a gironzolare per le strade della Genova vecchia, arrivo vicino al porto, comincio a canticchiare delle canzoni di De André. Regolare, a Genova, vicino al porto, uno passa da via del Campo e vuoi che non cominci a cantare la canzone omonima, Via del Campo, appunto, oppure La città vecchia? Allora o non conosci De André o non sei mai stato a Genova o tutt’e due le cose, ma allora io te lo chiedo, tu rispondi sinceramente per favore, che cosa ci stai a fare al mondo, dimmelo un po’. Comunque mi ricordo che quella volta lì era primavera, a Genova (ma guarda che è venuta a galla un altro po’ di schiuma dentro il mio cervello smemorato), cammina cammina seguendo l’istinto, un po’ come adesso, che non lo so dov’è il fornaio, ma seguo l’odore del pane, vedrai che lo trovo il fornaio; ecco, quella volta lì a Genova seguivo la musica, c’erano dei musicisti di strada, a un certo punto mi arriva all’orecchio il suono di un sax e di una fisarmonica che intonano Besame mucho, una versione struggente. E io non mi ricordo, ma sicuramente avrò pensato due cose, se somigliavo anche solo un po’ a quello di adesso: la prima, ma pensa che bello se avessi qui con me il mio contrabbasso, che bella base ritmica gli darei a Besame mucho; la seconda, ma guarda un po’, stavo proprio pensando ai baci dati e a quelli da dare, a quelli non dati e che avrei voluto dare, che forse non ho osato dare, magari avrò pensato a una bocca bella come quella di Ale, che io la sposerei, una con una bocca così, guarda le coincidenze. Comunque mi ero perso, va bene, ma poi ho ritrovato il senso di quel perdermi, di quello smarrimento dentro la sensazione di benessere, dovuta a tutto quel godimento interiore e a quelle riflessioni profonde sul contrabbasso e sulle bocche delle donne, scaturite dall'essere in quella situazione. Poi sicuramente mi sarà venuta in mente Bocca di Rosa, vuoi che non mi sia venuta in mente, a pensare a tutte quelle labbra di donne a Genova? Poi, per dire, dopo ci sarò anche andato all’appuntamento che avevo vicino alla stazione Brignole, ma quel perdermi sarà sicuramente stata la cosa più bella, divertente e significativa di quel giorno lì a Genova. Infatti, quel mio perdermi me lo ricordo, è rimasto nella schiuma della memoria. Allora, fatto sta che se uno si perde va anche bene, ma poi deve ritrovarsi, che altrimenti io sarei ancora là a vagare per le strade di Genova, senza meta, invece di esser qui a Parma in centro in mezzo alla neve, con un obiettivo ben preciso, il forno, che sento un odore di pizza che mi fa aumentare la fame, che ce ne avevo già abbastanza anche senza quest’odore di pizza al trancio, con tutta l'attività sessuale che mi fa consumare milioni di calorie e tutte le energie, che mi sento risucchiato nel vortice della lascivia e della goduria, e anche un po’ rimbambito e stordito, se proprio vogliamo essere sinceri fino in fondo.

Una delle storie che vengono raccontate nel romanzo è quella di un'infanzia trascorsa durante la seconda guerra mondiale. Lo spunto narrativo è dato da un dialogo in treno fra un nonno e suo nipote di sette anni. Ne riporto qui sotto uno stralcio.

–Noi ragazzi eravamo organizzati in bande, a seconda della zona dove abitavamo, non avevamo armi, più che altro facevamo a sassate per la strada. Una volta io ho tirato su la testa per guardare fuori, così, sporgendomi appena da un muretto dietro il quale ero nascosto; di là c’era un mio amico ma mi ha scambiato per uno di un’altra banda, mi ha tirato un sasso in fronte, io sono caduto per terra e sono svenuto; pochi attimi, ma sono svenuto. Le bande, però, sono venute fuori dopo la guerra. Durante la guerra non avevamo mica tempo di fare le bande, eravamo tutti uniti, pativamo la fame, eravamo tutti un’unica banda. Una volta sono andato in un giardino dove c’era una pianta di ciliegioni di uno che mi conosceva che mi ha detto: “, Cicci (mi chiamavano così), puoi mangiare tutte quelle che vuoi”. Io sono salito su questa pianta, erano ciliegioni duroni, non so, col senno di poi ne avrò mangiato due chili, una roba così, però m’è venuta la febbre a 41 e per poco muoio, ho fatto un’indigestione della madonna, però non sono mica morto. È brutta la fame.
–Ma è vero che c’era qualcuno che giocava con le bombe?
-Quando eravamo insieme tutti i ragazzi, durante la guerra, senza bande, avevamo il nostro “Pietro Micca minatore di Langhirano”, che era quello che era in grado di smontare le bombe a mano, le cartucce, le pallottole, era un nostro amico, un po’ più grande di noi, che si chiamava Michelangelo  Lanati, detto Pietro Micca minatore di Langhirano, e lì poi, in quelle situazioni lì, in genere venivano fuori i mutilatini, ma da noi non è mai successo niente.
–Che cosa sono i mutilatini?
–Sono quelli senza un braccio o senza una gamba o senza tutte e due le gambe, poteva succedere, a maneggiare bombe e munizioni, ma lui era bravissimo, a noi non è mai successo niente.
–Poi cosa facevate, ancora, durante la guerra?
-Sempre durante la guerra, io seguivo i militari, i graduati, sottufficiali o ufficiali, che fumavano metà sigaretta e poi la buttavano. Un soldato semplice lo riconoscevi perché fumava tutta la sigaretta, non poteva sprecare niente con la sua paga. Io raccoglievo queste mezze sigarette, ma anche dei mozziconi, tiravo fuori il tabacco e lo mettevo in una scatola di legno e poi lo portavo dallo zio di mia madre, lo zio Dario, a Faviano a piedi, avevo nove anni e lui mi dava delle uova, del burro, dormivo là, poi il giorno dopo ripartivo, sempre a piedi, e tornavo a Langhirano. Pensa: avevo nove anni, e andavo a piedi a Faviano, poi tornavo, durante la guerra.
-È molto lontano Faviano, da Langhirano?
–Per un bambino di nove anni, a piedi, direi di sì, saranno otto o nove chilometri.
–Torniamo alle armi e alle bombe. Trovavate delle bombe, allora, ogni tanto, se questo Pietro micca di pane le apriva.
–Altroché. Ma non è micca di pane è Micca e basta.
–E perché Pietro Micca, se si chiamava in un altro modo?
–Era il soprannome. Pietro Micca era stato un eroe di guerra nel 1700, aveva fatto saltare una galleria dove dovevano passare i nemici, ma era morto nell’esplosione.
–Allora era più bravo il vostro Pietro Micca, che non saltava mai per aria.
–Sì, per fortuna! Pensa che una volta, eravamo già dopo la guerra, avevamo trovato delle armi e delle bombe a mano, abbandonate dai tedeschi in fuga, e andavamo a pescare nel torrente Parma, alle chiastre bianche e alle chiastre nere con le bombe, e portavamo a casa i pesci, anche se era rischioso, con la cognizione che avevamo, figurati, eravamo dei bambini; lanciavamo le bombe in acqua e si alzavano delle ondate bestiali, delle volte ci finivano i pesci in braccio.
- Mio padre sta girando un film di zombi e uno a un certo punto tira una bomba a mano o della dinamite, non mi ricordo, nel Po e si ritrova in braccio un siluro, nel senso del pesce! Magari mio babbo l’ha sentita da te questa tecnica di pesca...
-Può darsi, può darsi, queste storie di miseria le conosce bene anche lui, sostiene che ero un bambino povero ma libero. Comunque oltre a pescare, giocavamo anche, con le bombe. Una volta avevamo messo sotto la socca di un olmo...
–Che cos’è la socca?
–La socca è una parola in dialetto, vuol dire il ceppo, quello che resta quando tagli la pianta a raso terra. Dopo la guerra le piante a Langhirano non c’erano più, erano sparite, impressionante, tutte tagliate per il riscaldamento con le stufe da legna durante l’inverno. Comunque, ti dicevo che abbiamo messo in una buca sotto questa socca della balestite, delle micce, dei detonatori, materiale per fare le bombe, poi abbiamo coperto tutto con la terra e dato fuoco alle micce, dopo esserci nascosti lì vicino, coricati in un fossato. È venuta fuori un’esplosione pazzesca, che ha fatto un cratere di un metro di profondità e tre metri di larghezza, la socca è volata via in mille pezzi, erano i nostri fuochi d’artificio, quelli lì! Poi i partigiani ci avevano chiesto che cosa fosse successo, glielo avevamo spiegato e loro ci avevano detto che era la stessa quantità di esplosivo utilizzata per fare saltare l’arcata dei ponti a Langhirano! Giocavamo anche con le pallottole. Un’altra volta avevamo trovato dei caricatori di tac-pùm, avevamo acceso un fuoco e ce li tiravamo dentro e facevamo una danza intorno, ululando come gli indiani. Questi caricatori scoppiavano e partivano le pallottole, non andavano molto lontano perché non avevano la forza del cane della pistola, ma una pallottolina mi ha colpito una gamba e ho ancora il segno, un buchino, guarda il polpaccio.
–Sì, lo vedo il segno. Bello il fuoco con le pallottole, ma un po’ pericoloso!
–Non facevamo mica solo cose pericolose, ci arrangiavamo come riuscivamo, ti ho già detto della spigolatura del grano, dell’indigestione di ciliegioni, del tabacco ricavato dalle sigarette buttate, quelle non son mica cose pericolose, a dire il vero l’indigestione era pericolosa, ma era dovuta alla fame, la cosa più pericolosa di tutte era la fame! Una volta, quando facevano i lanci per i partigiani, per rifornirli di armi e viveri, io avevo seguito da terra con attenzione, col naso all’insù per tutto il tempo, la traiettoria di uno dei pacchi, ero andato nel prato e dopo che avevano prelevato il pacco, mi ero impossessato di un paracadute e con la tela mia nonna aveva fatto sette otto camicie per altrettanti bambini. Nella povertà sei generoso, alla fine, dividi quel poco che hai con gli altri.
–E la storia della lontra?
–Bravo, la lontra è un’altra delle storie della fame, chiamiamole così, sei sveglio, eh, piccoletto? Hai preso tutto dal nonno!
–Anche il papà è sveglio, se è per quello, anche la mamma è sveglia.
-Sì, ma il nonno li batte tutti... Quella della lontra è una storia favolosa. Era appena finita la guerra. Questo cacciatore, noto per essere infallibile, dava la caccia a una lontra da tanto tempo.
Al momento buono, una volta che l’aveva finalmente catturata, era un vanto per lui, mostrarla, “L’ho ciapèda finalmént!”, l’ho presa, finalmente! E allora ha preso questa lontra, l’ha scuoiata, la pelle era quella che contava per lui, poi ha detto, era in un cortile lì, grosso modo lì vicino a dove c’è adesso la clinica, c’è un canale, era lì che l’aveva presa, “Ecco, ho ciapè la lontra finalmént! Qualcuno, per caso, vuole la carne della lontra?” Ho fatto uno scatto inverosimile, più veloce di quello di Christian a New York, e zac! Poi di corsa a casa, avrò fatto circa seicento metri, calcolati adesso mentalmente, Mennea l’era un paralitic zvén a mi.
–Non ho capito niente nonno. Chi è Mennea? Era un paralitic? Che cosa vuol dire?
–Un grande campione di atletica, un velocista di parecchi anni fa, di quando tuo padre era un ragazzo. Ecco, paragonato a me nello scatto di quella volta lì, era veloce come un paralitico, uno che non può neanche muovere le gambe! Tornando alla lontra, “Mà, a g’ho la lontra!”, ho detto a mia madre. Ero fiero del trofeo. E a gh’èma magnè per du o tri dì, ci abbiamo mangiato per due o tre giorni. Sapeva un po’ di coniglio, un po’ di selvatico e un po’ di pesce, ma quello che contava era mettere della roba commestibile sotto i denti, il menu contava poco. E pensa che avevamo anche dei parenti che stavano bene, con dei soldi, a Langhirano, che però non si sono mai interessati a noi. Come ti dicevo, la miseria unisce, la ricchezza divide, diventi egoista, non vuoi più saperne degli altri, quando sei ricco, pensi solo a difendere i tuoi privilegi. Delle volte diventavo vendicativo, l’ingiustizia mi dava fastidio. Una volta passavamo nel borgo, dalla piazza alla chiesa, e alcuni miei amici hanno suonato il campanello, era una prassi usata, lo facevo anch’io di solito, ma mi ero stufato, quella volta lì non avevo mica suonato, infatti ero tranquillo, con la coscienza a posto e non ero scappato. Il padrone di casa ovviamente ha beccato me, ero lì a portata di mano e m’ha dato una sberla che m’ha rimbambito. “Ma io non ho mica fatto niente”, gli ho detto. “Ti arrangi. Sei insieme a loro, così impari”, m’ha risposto. Va bene. La settimana dopo sono passato mentre lui era a lavorare, non c’era in casa nessuno e gli ho spaccato tutti i vetri con la fionda, così imparava lui, stavolta. Cosa dici, ho fatto bene?
–Non lo so, non è una bella cosa spaccare i vetri, se lo sanno mia madre o mio padre che ho spaccato dei vetri con un sasso, chissà che punizioni!
–Ma io ero orfano di padre e mia madre non sapeva neanche dov’ero durante il giorno, vivevo in strada, era tutta un’altra situazione da quella di oggi, secondo me ho fatto bene a spaccargli i vetri, non era stato giusto quello schiaffo. Vendetta compiuta. Dovevo spaccare i vetri anche ai miei parenti ricchi, sarebbe stato un atto di giustizia. Purtroppo non l'ho mai fatto.