Ho ricevuto via mail un file troppo lungo per essere pubblicato come commento al post "Per chi sa dire NO con eleganza".
Quindi ho deciso di pubblicarlo come nuovo post e ringrazio Benedetta per avermelo inviato.
"L’altra sera ascoltavo la tv mentre pulivo il lavello, azione quotidiana che mi offre un senso di controllo. Strofinavo e passavo lo straccio sulle parti meno lucenti. Lo facevo con forza, quasi con l’illusione che rimuovendo gli aloni dall’acciaio, potessero scomparire anche le ombre dietro alle parole di Report, delle Iene, di Ballarò, di Annozero, della Littizzetto sempre più incazzata, di un Grande Fratello che non riesco più nemmeno a guardare per sbaglio, ma soprattutto per rabbia.
Di tanto in tanto interrompevo la mia attività e mi sedevo per recepire ogni emozione evocata da una consapevolezza che da un po’ di tempo cresce in me. Giorni spudoratamente chiari, lucidi, nei quali si dilegua la nebbia che impediva la visuale e le strisce sull’asfalto si fanno visibili e rappresentano l’unico stimolo all’andare avanti. Come se il mio sguardo non potesse altro che fissare i piedi, perché di fronte non trova orizzonte a cui aspirare. Le inchieste di Report, Santoro combattente, la bella giornalista bionda della Rai che se n’è andata. E i conti che non tornano, i tagli alle scuole e alle università. L’impunità che sembra una beffa.
Vivo una transizione importante nella vita di un giovane adulto: il passaggio al mondo del lavoro, la costruzione di una famiglia, il desiderio di realizzazione che motiva le scelte fatte fino ad ora. E costante, a capo della lista, un valore che ho reso prioritario: la ricchezza data dalla cultura, offertami dalla eco di una nonna novantatreenne che ancora si sveglia la notte per controllare sul dizionario una parola. Lei, ipovedente, che dormiva con la grammatica latina sul comodino fino a pochi anni fa. Non potevo scegliere un percorso diverso dallo studio, perché in un paese come l’Italia, la cultura è parte dello strato di pelle del suo popolo. Esso cresce camminando tra resti storici imponenti e rappresentati da registi americani amanti di ciò che non possiedono; si culla su una tradizione passata che ad ogni secolo ha reso sorprese meravigliose; nella memoria a lungo termine mescola i propri ricordi con le esperienze di personaggi e luoghi di una sacralità infinita, per tempo e spazio. Sto leggendo un libro, “Roma”, che narra della quotidianità al tempo dell’Imperatore Traiano. Mi stupisco dell’attualità di usi e costumi che si sono mantenuti potentemente fino ai giorni nostri, creando quella che chiamiamo Società Occidentale. E’ avvenuto in Italia.
Chiudo il libro e in sottofondo di nuovo Report, che parla di evasioni, leggi ad personam, paradisi fiscali, cassa integrazione, povertà silenziosa, rifiuti, truffe, spettacolarizzazione di massacri e dolori umani. Avviene oggi in Italia.
Strofinando con forza il lavello, sale un senso di impotenza misto speranza. Una strana e paradossale sensazione. E dichiaro “mi viene da piangere”.
Io non so che significhi piangere per il proprio paese. Non ho assistito alla costruzione di un Stato, come i nonni dei miei nonni; non sono cresciuta in tempo di guerra come i miei nonni; non ho combattuto per ideali forti come hanno fatto i miei genitori. La mia identità nazionale si è sempre fondata su soddisfazioni altre, che ora riconosco come i classici stereotipi diffusi dallo sguardo altrui. Io non so che significhi piangere per il proprio paese, eppure..
Aprivo il cassetto per inserire le stoviglie asciutte e durante quel gesto, non so per quale motivo, ho percepito per la prima volta, l’autorevolezza di un’identificazione nazionale e il bisogno simultaneo di fuggire e di fermarmi, di piangere e di urlare, di sopravvivere e di scegliere. Parliamo ancora di identificazione nazionale, in un mondo dai confini sempre più sfumati? Ebbene sì e non per non essere attuali, anzi. Lasciare l’Italia come unica soluzione per inseguire un sogno, quello di fare ricerca presso l’università. Piangere per reagire alla cognizione che ciò su cui il mio paese si è sempre distinto profondamente, il genio delle sue menti, venga abbandonato in un angolo perché c’è altro a cui pensare. Che cosa è questo altro in assenza di un sistema che non ritiene utile investire sul ragionamento, sulla creazione, sull’indispensabilità di una società pensante?
Al Grande Fratello, non me ne voglia Signorini che ritengo intelligente in quanto sa abbassarsi per convenienza a livelli infimi di comunicazione (grande capacità adattiva), potrei assistere come ad un circo, ma quest’anno non riesco a fare nemmeno questo. Ho studiato molto per assicurare al mio cervello una qualità di vita fondata sulla coscienza. L’ho fatto perché il messaggio che fino a qualche anno fa passava a noi ragazzi era “Studia e diventerai qualcuno”. E’ esatto, sono diventata “qualcuno”, pronome che indica “una persona qualunque”, mentre loro, gruppo indistinto e distinto di ragazzi della mia età che volteggiano davanti alle telecamere, rappresentano modelli portati su un piatto d’argento. Come Alessia Marcuzzi osanna il nome dei concorrenti quando parla di loro è estremamente frustrante per chi è a casa, con libri alla mano per passare un esame di stato che riconosca una professione, che in ogni caso non può assicurarmi un lavoro certo. Agghiacciante per chi è costretto a retrocedere dall’illusione della serie A alla realtà della serie C e si vede superato dall’esibizione di una mediocrità fatta baluardo della nuova identità nazionale italiana.
Mi chiedo se è tutto esagerato, diffuso mediaticamente da persone di parte che forse mentono, insomma non è possibile che così palesemente si stia infangando ciò che siamo. Le persone ridono e sminuiscono. Lo facevo anche io molto facilmente, con quella leggerezza con cui si leggono gli avvenimenti storici come qualcosa di esterno al nostro piccolo. Perché in fondo poi la vita si limita alla mera e ristretta quotidianità: al popolo, al paese ci penserà chi di dovere! Quante volte ho ripetuto queste parole nei dialoghi che non ero in grado di sostenere dialetticamente.
Ora non sono più competente di prima, anzi permango in un’ignoranza che purtroppo è mantenuta tale dalle fonti a più immediata disposizione. Sono semplicemente diventata grande e diventare grandi comporta, mi accorgo, la strutturazione di nuovi significati legati all’identità. E della mia, il mio popolo, il mio paese ne sono elementi costitutivi.
Quindi sì, istintivamente fuggirei, mollerei, deciderei di sopravvivere in termini di rassegnazione. Ma facendolo, insulterei anni di formazione su cui ho investito interi sabati sera (perché a volte più importante dell’uscire a divertirsi). Dimenticherei in un’amnesia dell’anima e della pelle ciò che sono, le strade medioevali e i ciottoli lisciati dalle mie scarpe, la grandezza di un paese la cui risonanza è giunta ovunque e attraverso qualsiasi forma d’arte inventata dall’uomo. Volterei le spalle al valore più forte che mi guida, la cultura e su cui la mia e la nostra identità nazionale poggia il suo momentaneamente venduto posteriore.
Ora so che significa piangere per il proprio paese. Il pianto porta con sé sollievo, fornendo carburante nei momenti difficili e personalmente, motivandomi a fermarmi qui, ad urlare e a scegliere, anche dove scelta sembra non essercene."
Benedetta Bottura
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