Non è possibile, mi tocca ancora parlare di tv. A me che la guardo pochissimo.
A dire il vero, stavolta, più che di tv, parlerò di ciò che è successo soprattutto dopo la trasmissione Vieni via con me (che a sorpresa ha polverizzato il record di audience della settimana precedente, senza Benigni a far da matador, stavolta, e certo non è poco).Vorrei dedicare una rosa a chi vive sotto scorta, non perché fa il magistrato o il politico, ma semplicemente l'artista o il giornalista. Credo che sia molto triste un paese dove un artista o uno scrittore sono costretti a vivere accompagnati ovunque dalla scorta, perché stanno facendo il loro lavoro essenzialmente culturale, cosa che li porta a essere nel mirino della criminalità organizzata. Come Roberto Saviano, così anche Giulio Cavalli, teatrante lombardo, vive sotto scorta.
Dal sito di Repubblica: Sera di novembre, Gorgonzola, provincia di Milano. Fuori, sono rimasti due carabinieri in divisa accanto alla macchina di servizio. Dentro, Giulio Cavalli racconta l'ascesa, e il potere delle mafie in Lombardia a 400 persone sedute. Più due in piedi, ai lati del palco, rivolti al pubblico, come alla fine lui stesso sottolinea: "Un ringraziamento agli uomini della scorta che fanno la mia stessa vita di merda. Li potete distinguere perché sono gli unici che guardano lo spettacolo dalla parte sbagliata. Sono... carabinieri". Risate amare. E parole
di Giulio Cavalli, anni 33, autore, attore, regista teatrale, ma anche consigliere regionale (Italia dei Valori). "Un arlecchino scassaminchia", come riassume lui.Sotto scorta dal 2008. "In questo paese che normale non è, le mafie minacciano anche gli attori", riflette il giorno dopo seduto nell'ufficio del "suo" teatro. A Tavazzano, provincia di Lodi, dove arrivò a vivere insieme alla coppia di veneti che lo adottarono quando aveva due anni. "Nato a Milano da madre disgraziata", prova a ironizzare. "Mi è anche successo di volerla cercare, due anni e mezzo fa: era nato da poco il mio secondo figlio e sapevo che lei viveva a Verbania, ma all'indirizzo che avevo non c'era più nessuno. Per me quello fu un periodo strano, cominciavo a essere sotto pressione". Già. Le minacce: scritte, urlate, sussurrate, sotto forma di parole, pallottole e infrazioni (a casa, in teatro). Tanto da garantirgli l'ingresso nel sistema di protezione: dalla tutela "dinamica" alla scorta di "secondo livello". Dalla polizia ai carabinieri. Tradotto: "Due uomini armati sempre con me...". Sempre, letteralmente.
Anche a Tavazzano: un grumo di casette basse e palazzoni attaccato al bordo della via Emilia, tra l'ombra della centrale termoelettrica e la nebbia che incombe. "Qui tutto è molto via Gluck". Giulio sorride malinconico e ricorda "quando eravamo una compagnia di 40 attori para-professionisti, ognuno con un lavoro "vero". Il mio? Vendevo surgelati a Lodi, poi materiale elettrico e fibra ottica. Ero un ventenne con il macchinone: guadagnavo bene, ma avevo la passione per il teatro. Di quel periodo credo mi sia rimasto l'atteggiamento imprenditoriale, come dicono alcuni malignamente, in realtà preferisco "bottegaio": ché mi sento un artigiano. Ed è stata più utile l'esperienza da venditore della scuola di recitazione. Quando persi il lavoro, mia moglie mi disse: "Ti piace il teatro? Allora fallo, basta che porti a casa uno stipendio"".
Protetto da otto i carabinieri che si alternano, "turnando", in coppia, a tempo pieno dal 27 aprile 2009, 48 ore dopo il giorno della Liberazione e "l'ultima passeggiata in libertà con i miei figli". Piccolo universo fragile, e contraddittorio, quello di Giulio, che ha però stabilito un rifugio, una dimensione di libertà seppur provvisoria. "L'atrio di casa mia, tra la porta d'ingresso dove mi lasciano e prendono gli uomini della scorta e l'altra porta, oltre cui c'è la famiglia, mia moglie, due figli piccoli più quello che verrà, e le attenzioni da loro giustamente richieste. Finisco per passarci del tempo nell'atrio, ci ho pure scritto pagine e testi. Lì, come nelle stanze d'hotel o in camerino, ritrovo la cosa che mi manca di più, la mia solitudine".
Il diritto a essere, sentirsi solo. E poi, gli altri. "La gente in Italia ormai valuta dal codazzo di persone, addirittura dalla presenza di controllo, quindi di scorta, il tuo grado di popolarità. Invece alla fine, almeno nel mio caso e parlo anche a nome loro" - indica le ombre e ne riceve in cambio un sorriso - "rivendichiamo la normalità: ognuno di noi tre sta semplicemente facendo il proprio lavoro". E ancora: "Non chiedo mai al caposcorta perché mi dice di non entrare in un locale. Ho imparato a riconoscere le situazioni che potrebbero mettere loro, gli uomini della scorta, in difficoltà. Ma finisco per vivere una blindatura intellettuale". La vedi, senti, avverti, di pomeriggio, in giro per Milano. Pioggia fuori e piccoli vuoti intorno. I due carabinieri che controllano con discrezione ogni cosa. Anche quando siamo seduti nel freddo, sotto un portico, con Giulio che ammette e descrive la paura: "È come un senso di vertigine. Ma scatta per processi mentali, più che per situazioni difficili, quelle le percepisci e gestisci sotto effetto dell'adrenalina". Ci alziamo, e lui dice: "Domani non sarei pronto a uscire da solo, questo è sicuro. Lotti e soffri per non abituarti, poi lo fai, succede. Ma non voglio dargliela vinta, farmi impressionare da una macchina di pregiudicati calabresi davanti al mio ufficio o se vengono ai miei spettacoli".
Come in un'altra serata di questo novembre lombardo e piovoso. A Bergamo, dentro un portone su viale Papa Giovanni XXIII: suoni, entri, il cortile e le scale già verificate dai carabinieri del posto, la sala dove Giulio presenta il suo libro (Nomi, cognomi e infami) è al primo piano. "La mia situazione dimostra che la parola ancora funziona, fa paura, necessita di protezione...".
La parola fa paura, necessita di protezione: questa è una frase bellissima, secondo me.
La parola fa davvero paura se il ministro degli interni, tal Roberto Maroni (è Roberto, ma tranquilli: la rosa non è per lui), della Lega nord, si sente offeso dalle parole di Roberto Saviano (ecco, è lui il Roberto della rosa...), che afferma nella trasmissione di lunedì scorso come la 'ndrangheta calabrese si sia infiltrata da tempo in Lombardia e che abbia preso contatto con esponenti politici della Lega nord, che amministrano in molte località lombarde, ovviamente.
Ebbene le parole di Saviano non fanno altro che riecheggiare la relazione della Dia (Direzione investigativa antimafia), che in uno scritto ufficiale, quindi conosciuto anche al ministro degli interni, afferma testualmente:
"Presenza consolidata" e "coinvolgimento" di amministratori locali. La "consolidata presenza" in alcune aree lombarde di "sodali di storiche famiglie di 'ndrangheta ha influenzato la vita economica, sociale e politica di quei luoghi", si legge nella relazione, che sottolinea il "coinvolgimento di alcuni personaggi, rappresentati da pubblici amministratori locali e tecnici del settore che, mantenendo fede a impegni assunti con talune significative componenti, organicamente inserite nelle cosche, hanno agevolato l'assegnazione di appalti e assestato oblique vicende amministrative".
I due filoni. Per penetrare nel tessuto sociale, "le cosche - che in Lombardia godono di una certa autonomia ma dipendono sempre dalla 'casa madre calabrese' come ha dimostrato l'inchiesta 'Crimine' che ha ricostruito l'organigramma della 'ndrangheta - si muovono seguendo due filoni: quello del consenso e quello dell'assoggettamento", spiegano gli esperti della Dia. Tattiche che "da un lato trascinano con modalità diverse i sodalizi nelle attività produttive e dall'altro li collegano con ignari settori della pubblica amministrazione, che possano favorirne i disegni economici".
Le aree dell'infiltrazione. Con questa strategia, e favorita da "una serie di fattori ambientali", si consolida la "mafia imprenditrice calabrese" che con "propri e sfuggenti cartelli d'imprese" si infiltra nel "sistema degli appalti pubblici, nel combinato settore del movimento terra e, in alcuni segmenti dell'edilizia privata" come il "multiforme compartimento che provvede alle cosiddette 'opere di urbanizzazione'."
"Condizionamento ambientale". Il risultato è un vero e proprio "condizionamento ambientale" da parte della 'ndrangheta, "a modificare sensibilmente le normali dinamiche degli appalti, proiettando nel sistema legale illeciti proventi e ponendo le basi per ulteriori imprese criminali". In Lombardia ormai la 'ndrangheta si è ambientata talmente bene che non ha più bisogno di usare tecniche d'intimidazione. Al contrario, sottolinea la Dia, si serve di "nuove e sfuggenti tecniche di infiltrazione, che hanno sostituito le capacità di intimidazione con due nuovi fattori condizionanti: il ricorso al massimo ribasso" nelle gare d'appalto e la "decisiva importanza contrattuale attribuita ai fattori temporali molto ristretti per la conclusione delle opere". Insomma, una volta consolidata la propria presenza, la 'ndrangheta ha imparato a usare bene leggi e bandi a proprio vantaggio, arricchendosi sempre di più.
I due filoni. Per penetrare nel tessuto sociale, "le cosche - che in Lombardia godono di una certa autonomia ma dipendono sempre dalla 'casa madre calabrese' come ha dimostrato l'inchiesta 'Crimine' che ha ricostruito l'organigramma della 'ndrangheta - si muovono seguendo due filoni: quello del consenso e quello dell'assoggettamento", spiegano gli esperti della Dia. Tattiche che "da un lato trascinano con modalità diverse i sodalizi nelle attività produttive e dall'altro li collegano con ignari settori della pubblica amministrazione, che possano favorirne i disegni economici".
Le aree dell'infiltrazione. Con questa strategia, e favorita da "una serie di fattori ambientali", si consolida la "mafia imprenditrice calabrese" che con "propri e sfuggenti cartelli d'imprese" si infiltra nel "sistema degli appalti pubblici, nel combinato settore del movimento terra e, in alcuni segmenti dell'edilizia privata" come il "multiforme compartimento che provvede alle cosiddette 'opere di urbanizzazione'."
"Condizionamento ambientale". Il risultato è un vero e proprio "condizionamento ambientale" da parte della 'ndrangheta, "a modificare sensibilmente le normali dinamiche degli appalti, proiettando nel sistema legale illeciti proventi e ponendo le basi per ulteriori imprese criminali". In Lombardia ormai la 'ndrangheta si è ambientata talmente bene che non ha più bisogno di usare tecniche d'intimidazione. Al contrario, sottolinea la Dia, si serve di "nuove e sfuggenti tecniche di infiltrazione, che hanno sostituito le capacità di intimidazione con due nuovi fattori condizionanti: il ricorso al massimo ribasso" nelle gare d'appalto e la "decisiva importanza contrattuale attribuita ai fattori temporali molto ristretti per la conclusione delle opere". Insomma, una volta consolidata la propria presenza, la 'ndrangheta ha imparato a usare bene leggi e bandi a proprio vantaggio, arricchendosi sempre di più.
Mi sembrano parole assolutamente inequivocabili, quindi non si capisce perché un gornalista non possa riassumerne per efficacia comunicativa il concetto in tv, senza scatenare polemiche tanto pretestuose quanto sospette. L'eccessivo nervosismo di Maroni tradisce, probabilmente, oltre alla debolezza e fragilità del governo in questo momento, un inizio di malumore dell'elettorato leghista.
Così come risulta un po' sospetto che il giorno dopo le polemiche con Saviano, venga arrestato un latitante inserito nella lista dei 30 più pericolosi, Iovine, uno dei boss camorristi. Arrestato non in qualche esotica località nascosta, ma, guarda un po', nel suo paese, quel tristemente noto Casal di Principe, patria dei Casalesi, signori della camorra campana. Questo dopo 14 anni di latitanza.
Naturalmente non ho alcuna prova di combine, ma la tempistica e le modalità destano stupore. Avendo la fortuna di vivere in pace e senza scorta, dedico due rose del mio giardino a Roberto e a Giulio, una per uno. Perché non si sentano soli, perché continuino a svolgere il loro lavoro benissimo, come hanno fatto finora e come stanno facendo. Un lavoro, ripeto, culturale; forse proprio per questo, molto fastidioso.
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