La schiuma della memoria

Qui si parla innanzitutto di un romanzo, uscito nel novembre del 2010 presso le edizioni Montag di Tolentino.
Il titolo è La schiuma della memoria e l'ho scritto io.
Poi si parla e si scrive di altre cose, di fotografie e di film, di libri letti e di teatro, di teatroterapia e di paesaggio. E di altro ancora. L'intenzione è comunque quella di raccordare la memoria con l'attualità per ritrovare il senso perduto degli eventi e per non dimenticare personaggi che con le loro vite hanno scritto pagine di storia non solo privata, ma anche collettiva. Molti di essi sono i miei riferimenti culturali e di valore. Il romanzo stesso dialoga con questi contenuti, in modo dinamico, in costante evoluzione, perché la memoria non è cristallizzazione ma è senso e significato. Mi piacerebbe che la lettura del blog desse anche il piacere della scoperta e di un punto di vista sul mondo spostato dalla norma, in qualche modo sorprendente. Buona lettura.

mercoledì 22 giugno 2011

La vita agra

La settimana scorsa ho concluso la lettura de La vita agra, romanzo di Luciano Bianciardi. Nato a Grosseto nel 1922, ha scritto questo libro nel 1962, all'inizio del boom economico italiano. L'io narrante è uno scrittore giornalista che dalla Maremma si trasferisce a Milano. Di fatto il romanzo racconta, con molte idee geniali e con un linguaggio chiaro e diretto, una parte della biografia dell'autore Luciano Bianciardi. Nella vita di Bianciardi la partenza per Milano avviene nel 1954. E le date paiono coincidere, più o meno, perché l'io narrante, senza parlare di date, descrive la sua partenza, già avvenuta in precedenza rispetto al perido narrato dal romanzo, con un flashback commosso ma anche divertente.
Le date più o meno coincidono perché viene raccontato un fatto di cronaca che diviene l'occasione della partenza e il fatto di cronaca è del 1954. Si tratta dell'esplosione di un pozzo di una miniera per il grisù, a Ribolla, in Toscana, che uccide 43 minatori.
Nel romanzo, lo spunto per partire è raggiungere a Milano un palazzo di vetro e cemento, sede della compagnia industriale, e farlo esplodere per vendicare i minatori morti.
Questa, ironicamente e amaramente, sarebbe la missione da anarchico dell'io narrante.
Poi la vita sceglie altro, vale a dire che il protagonista abbandona i suoi propositi esplosivi e comincia a lavorare nel campo dell'editoria.
"L'avrei scritta come un bitinicco arrabbiato, dieci anni or sono, quando il signor Jacques Querouaques forse non aveva nemmeno imparato a tirarsi su i calzoni. L'avrei fatto, ma mi mancò il tempo e mi mancarono i mezzi."
Così dalla narrativa alla "beatnik" ("bittinicco") stile Kerouac ("Querouaques"), l'io narrante è costretto a ripiegare sulle traduzioni. Ma il suo obiettivo è la narrativa integrale:
"Costruirò la mia storia a vari livelli di tempo, di tempo voglio dire sia cronologico che sintattico. Farò squillare come ottoni gli aoristi, zampognare come fagotti gli imperfetti, pagine e pagine di avoivoevo da far scendere il latte alle ginocchia, svariare i presenti dal gemito del flauto al trillo del violino alla pasta densa del violoncello, tuonare come grancasse e timpani i futuri carichi di speranza. [...] Vi darò la narrativa integrale dove il narratore è coinvolto nel suo narrare proprio in quanto narratore e il lettore nel suo leggere in quanto lettore, insomma interi".
E ne La vita agra, l'operazione riesce, la metafora musical-strumentale approda sulle pagine di un bellissimo libro.
Il capitolo X è il più bello, caustico sul miracolo economico incipiente (è scritto nel 1962) e visionario sul futuro desiderato.
"I miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve (il fatto fu uno solo, anche se il dottor Giovanni scinde e sposta la storia del vino nella località di Cana). Mangiano e bevono a brigate sull'erba, per gruppi di cento e di cinquanta. Mangiano e bevono e cantano, stanno a sentire la conferenza e appena buio, sempre lì sull'erba, come capita capita, fanno all'amore. Il conferenziere si è tirato in disparte coi suoi dodici assistenti, e discorre con loro sorridendo. E' un dottore ebreo, biondo, sui trent'anni. I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra che tutti ci credano a questo miracolo balordo."
Come si fa a non amare pagine così?
"Io mi oppongo", dichiara l'io narrante; al miracolo economico, intende. E "ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social-divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine".
E queste parole non sono ancora attuali? Non sembrano scritte il giorno dopo i referendum del 12 e 13 giugno?
Il futuro immaginato da Bianciardi è un "neocristianesimo a sfondo disattivistico e copulatorio", in cui nessuno lavora, la terra produce i suoi frutti, l'essere umano li raccoglie, vivendo in pace e nel piacere di un amore e di un sesso liberi dalla famiglia. Ma nel frattempo, dice l'io narrante, bisogna sopravvivere e adattarsi al ondo così com'è. E provare a capire una città grigia come i suoi abitanti, che in tram non si salutano e mal si sopportano.
Un gran libro, questo, di quelli importanti. Sarà piaciuto a Pasolini, mi son detto. Poi cerca cerca e non ho trovato contatti fra Pasolini e Bianciardi. E pensare che dicevano un po' le stesse cose, decenni prima degli altri.

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