La schiuma della memoria

Qui si parla innanzitutto di un romanzo, uscito nel novembre del 2010 presso le edizioni Montag di Tolentino.
Il titolo è La schiuma della memoria e l'ho scritto io.
Poi si parla e si scrive di altre cose, di fotografie e di film, di libri letti e di teatro, di teatroterapia e di paesaggio. E di altro ancora. L'intenzione è comunque quella di raccordare la memoria con l'attualità per ritrovare il senso perduto degli eventi e per non dimenticare personaggi che con le loro vite hanno scritto pagine di storia non solo privata, ma anche collettiva. Molti di essi sono i miei riferimenti culturali e di valore. Il romanzo stesso dialoga con questi contenuti, in modo dinamico, in costante evoluzione, perché la memoria non è cristallizzazione ma è senso e significato. Mi piacerebbe che la lettura del blog desse anche il piacere della scoperta e di un punto di vista sul mondo spostato dalla norma, in qualche modo sorprendente. Buona lettura.

martedì 25 gennaio 2011

Giorgio Gaberscik detto Gaber

Oggi voglio ricordare un grande autore e interprete della canzone italiana: Giorgio Gaber, che di cognome in realtà faceva Gaberscik, nato il 25 gennaio del 1939 a Milano e morto dopo una sofferta malattia, di cancro, il 1° gennaio del 2003. 
Dopo un esordio "leggero", ma che va ricordato perché insieme a Celentano fu il primo interprete del rock in Italia, dopo un certo successo televisivo e la parecipazione ad alcuni festival di Sanremo, Gaber, all'inizio degli anni '70 decide di cambaire modo e stile di porsi al pubblico. Così s'inventa il teatro canzone, vale a dire degli spettacoli teatrali veri e propri, la cui struttura portante era data da canzoni scritte da lui, insieme spesso a Sandro Luporini, alternate a monologhi sull'attualità, non intesa come cronaca, ma come riflessione sui nodi della contemporaneità. Col suo teatro-canzone Giorgio Gaber ha attraversato quarant'anni cruciali della storia italiana. Ironico, ruvido, istrionico, nel corso degli anni è stato definito "anarchico", "vate dei cani sciolti", "anticonformista", "qualunquista" (!) ma qualsiasi etichetta risulta insufficiente a riassumerne la personalità. La sua mimica facciale era veramente incredibile ed era l'aspetto più squisitamente teatrale del suo esibirsi in pubblico. Le sue smorfie erano già di per sé tutte da vedere e molto espressive. Ebbi l'occasione di vedere un suo spettacolo al Regio di Parma negli anni'80 (credo che si trattasse di Io se fossi Gaber) e fui colpito proprio dalla sua impressionante mimica facciale (che scrutavo dai loggioni con un binocolo da birdwatcher).
Senz'altro i recital che Gaber portava in giro per i teatri negli anni 70 erano di intelligenza non comune, perché sferzavano i costumi e le mode effimere e i luoghi comuni, anche della sinistra (verso la quale era politicamente orientato). Il teatro canzone gli permetteva di esprimersi utilizzando insieme la parola e il gesto teatrali, mescolati alla musica e alla sonorità delle canzoni, coi quali formavano un corpo unico e non scisso. Portò nei teatri abituati alla prosa borghese la sua poetica dissacrante anti-borghese e anti-clericale, contro ogni ipocrisia, anche di sinistra. Come tutti i grandi interpreti della cultura italiana (Gramsci, Pasolini, Pavese, Levi, De André, tanto per citare alcuni dei "miei" morti) vissi anche lunghi momenti di isolamento, con pochi amici, fra i quali sempre presenti Enzo Jannacci (col quale aveva costituito un duo a inizio carriera, I due corsari, e col quale ricostituì, negli anni successivi, un altro duo: i Baba Jaga) e Luporini. La sua voce è quella di un individualista senza pace, che non riesce a tacere su nulla, contrario a qualsiasi omologazione. In "L'uomo non è fatto per star solo", da "Polli di allevamento" (1978/79), dice: "Le cose buone non fanno epidemia/ è un fatto biologico/ L'intelligenza non si attacca/ La scarlattina sì/ Le persone che si aggregano hanno incorporato un distillatore che elimina via tutto il buono e lascia passare la merda pura".
E di nuovo, scusatemi, ma è inevitabile in questo periodo socialmente e politicamente disgustoso, tocca sentir parlare di quello strato fecale che cominciava ad avvolgere l'Italia dal consumismo che, secondo Pasolini, in pochi aveva distrutto l'identità e avvelenato l'anima degli italiani più di quanto avesse fatto il fascismo in un ventennio.
Di Gaber vorrei ancora ricordare il suo ultimo disco, un capolavoro amaro e lucido, tagliente e dolente: Io non mi sento italiano. Il disco è uscito postumo, nel 2003, senza rimaneggiamenti: aveva fatto in tempo a finirlo, prima di morire.
Come se fosse l'ultima cosa che Gaber ci volesse donare, l'ultima sua creazione, una specie di testamento artistico.
Difficile non pensare a un riferimento alla propria malattia, oltre che a una feroce metafora della società, incapace di generare antidoti al razzismo e alla violenza, in I mostri che abbiamo dentro: "I mostri che abbiamo dentro/crescono in tutto il mondo/i mostri che abbiamo dentro/ci stanno devastando". Bellissima anche Non insegnate ai bambini, con consigli pedagogici che rimandano a una pedagogia della bellezza, che io considero assolutamente necessaria e indifferibile (cosa di cui i lettori più attenti del romanzo e/o del blog si saranno accorti): Non insegnate ai bambini, dice Gaber,  "ma se proprio volete/insegnate soltanto la magia della vita"; "ma se proprio volete/ raccontategli il sogno di un'antica speranza"; "ma coltivate voi stessi il cuore e la mente/stategli sempre vicini/date fiducia all'amore il resto è niente". Il brano Io non mi sento italiano è dedicato al Presidente della Repubblica, che allora era Carlo Azeglio Ciampi. Amara e lucida analisi del rovesciamento fra finzione e realtà che sembra essersi impossessata del nostro vivere è Il tutto è falso: "Io/che non riesco più a ritrovare/qualche cosa per farmi uscire/dalla mia solitudine./Cerco di afferrare un po' il presente/ma se tolgo ciò che è falso/non resta più niente". Notevolissima la riproposizione di Un'illogica allegria, che rovescia il senso dei Mostri citati in precedenza, trasformando l'angoscia in accettazione; qui Gaber afferma esplicitamente: "E' come se improvvisamente/mi fossi preso il diritto/di vivere il presente./Io sto bene.../quest'illogica allegria/proprio ora, proprio qui".
Proprio in quegli ultimi attimi di vita, sembra dirci Gaber, io sto bene. Me ne sto andando, e va bene così.
Un'accettazione illuminata del dolore e della sofferenza.
E scusate se sono stato un po' lungo...




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